I dubbi che precedono ogni edizione quest’anno sono stati superati dall’impellenza di essere fisicamente presenti, di vincere sulla frustrazione generata da due anni di limitazioni della vita personale e collettiva e, dobbiamo drammaticamente aggiungere, dal bisogno di non farsi sopraffare dall’ennesimo schiaffo alla civiltà che la guerra in Ucraina rappresenta.
Una violenza che lascia increduli perché va a sommarsi ai conflitti già in atto, significando che non siamo usciti migliori dalla catastrofe globale e che, più precisamente, non ne siamo usciti affatto. L’emergenza sanitaria che ha travolto il mondo facendolo assomigliare, per certi aspetti in modo inquietante, al nostro microcosmo di veleni, ha mostrato la letalità di un modello di sviluppo economico da abbandonare al più presto e che invece risulta rafforzato, continuando a soddisfare il suo appetito famelico facendo leva, paradossalmente, sulla ripresa economica di cui tutti abbiamo un disperato bisogno e sugli equilibri imposti dai nuovi interessi sovranazionali.
Ben prima dello scenario di guerra ucraino – che apre a nuove ipotesi per una deroga succulenta all’abbandono del carbone – le parole “resilienza” e “ripresa” del PNRR, hanno nascosto e continuano a nascondere scelte politiche ed economiche che assecondano la logica del profitto.
Taranto, come molti altri SIN, diventa la nuova torta di finanziamenti di cui accaparrarsi subito qualche fetta. Poco importa se le cause più determinanti della sofferenza nostra e del territorio non verranno rimosse. A queste operazioni di facciata – replicate in ogni territorio sfruttato, che oggi trovano una sponda miseramente strumentalizzata dalla follia bellica che ruota attorno al gas – noi ci opponiamo fermamente, come ci siamo opposti alla fasulla difesa del lavoro il 2 agosto di dieci anni fa: anno dopo anno i dati occupazionali e persino i punti del Pil nazionale hanno messo a nudo la scarsa incidenza positiva di un impianto abnorme ed obsoleto, che per contro continua a produrre malattia e morte. Il nuovo mantra sposato dai politici istituzionali è il “rischio accettabile”. Da chi? Questa è la domanda che poniamo!
Per quello che ci riguarda, noi non possiamo e non vogliamo più concedere margini alla tragedia quotidiana da cui abbiamo il dovere di risollevarci, se vogliamo riprenderci il senso delle parole presente e futuro.
La modifica degli Artt. 9 e 41 della Costituzione sembra scritta per noi. E per non lasciare che restino lettera morta Taranto ha bisogno di saper riconoscere il nuovo ricatto che la finta transizione sta predisponendo sul binomio lavoro/salute. I dati sanitari che tutti invocano per riabilitare il concetto di rischio accettabile e per puntare a una rinnovata continuità produttiva, devono invece costituire esclusivamente la base di calcolo del risarcimento e dei livelli di cura a cui abbiamo diritto. Noi dobbiamo ottenere, come comunità che vanta un credito inestimabile nei confronti di uno stato finora ingiusto, la partecipazione inderogabile al controllo del piano di risarcimento e di ripristino di condizioni ambientali sane, quindi socialmente eque, attraverso i fondi messi a disposizione dal PNRR.
Tutti i movimenti a difesa dei diritti universali oggi incalzano autorità e cittadini a confronti pubblici e diretti. Il nostro palco è da sempre lo spazio per le rivendicazioni comuni e oggi più che mai sentiamo il diritto e il dovere di rappresentare il senso di appartenenza ad una Terra che ci ospita tutte e tutti, nella quale pensare e vivere un’esistenza pacifica senza padroni.
Già nel 2018 il nostro dibattito si concentrava sul tema della mancata “giustizia ambientale” alla quale corrisponde invariabilmente un’ingiustizia sociale.
Quest’anno è indispensabile confrontarsi con le lavoratrici e i lavoratori su come insieme si possa determinare autonomamente una relazione compatibile con le comunità e l’ambiente, superando il ricatto del reddito e l’incubo della disoccupazione, scardinando definitivamente la teoria violenta secondo cui il lavoro va difeso a qualunque costo “anche se ammazza perché altrimenti muori di fame”.
Noi vogliamo recuperare la fisionomia di una classe che è sparita dal confronto sociale, sprofondata nella voragine della disgregazione e della precarietà, vogliamo continuare a tenere insieme la questione ambientale e la questione sociale, vogliamo tenere viva l’immaginazione politica, attraverso le testimonianze del nostro sapere scaturito dall’esperienza, attraverso il supporto del sapere scientifico e attraverso l’arte che si fa militante. Sappiamo di poter contribuire ad una transizione ecologica vera per il ripristino della giustizia sociale, l’unica in cui garantire il diritto di tutti alla pace.